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Roommates Atto III, convivere è condividere: tre mostre allo Spazio Studi Arte
Progetti e iniziative
«Roommates non è una collettiva, bensì una mostra a più nomi che esclude legami tematici o formali tra gli artisti coinvolti, negando le forzature che spesso viziano certe esposizioni corali». Questa la premessa di un video concepito per la pubblicazione sui social. Un’introduzione breve quanto esaustiva per il terzo atto di Roommates, nella giovanissima realtà dello Spazio Studi Arte, a Roma. L’idea della direttrice e curatrice Gemma Gulisano è di evitare sovrastrutture tematiche che vincolino gli artisti in un legame costruito ad hoc per esigenze curatoriali. Il che, in effetti, rende non solo la visita più interessante ma anche l’esperienza più umana.
Al di là dell’aspetto concettuale legato alla convivenza in uno spazio “terzo” — esperienza comune a molti giovani, soprattutto studenti — il fascino di questa impostazione risiede nella condizione di intimità che si crea all’interno delle tre stanze, spazi che gli artisti abitano come fossero le loro camere private e nel quale, infatti, i visitatori entrano in punta di piedi, cercando di non farsi notare, come per sottrarre un frammento di vita autentica a presenze che non sembrano avere come fine ultimo, quello di mettersi in mostra.
Room 1: la lettura inaspettata di Carola Spina
Già entrando nella Room 1 infatti, è possibile notare come non ci sia nulla che cerchi di impressionare: al contrario, tutto sembra raccolto in una zona neutra, sospesa nel tempo.
Carola Spina, che legge seduta sopra dei banchi di scuola impilati, potrebbe ricordare in effetti un oratore che declama qualcosa su un podio, eppure dietro c’è anche qualcosa di più familiare e sottile, qualcosa che ha a che fare con l’entrata, inaspettata, nella stanza di qualcuno e coglierlo nel mezzo di un momento privato come la lettura, magari in una posizione scomoda ma intima, viva. Un gesto semplice che diventa significativo proprio perché dà l’impressione che, almeno in parte, sia spontaneo.
La lettura ad alta voce, la scelta del testo, la postura: tutto suggerisce una disponibilità a condividere, non una volontà di esibirsi. La performance avrebbe potuto essere silenziosa, autoreferenziale. Invece c’è un’apertura verso chi entra. È un’accoglienza gentile, discreta, che non si impone ma coinvolge. Si manifesta non come teatro ma come coabitazione, ed è proprio la naturalezza e l’umanità di quel piccolo atto relazionale a rendere speciale l’opera.0 Quel gesto che pare voler suggerire: “Se vuoi, siediti. Ti leggo qualcosa”.

Room 2: il gesto della memoria per Ilaria Maciocci
Ilaria Maciocci invece, nella Room numero 2, si esibisce in un ambiente buio, in cui spicca una scatola rialzata da cui emergono lentamente figure stilizzate dal sapore orientale e mitologico. A primo impatto un artista di strada alle prese col suo spettacolo in piazza, ma il suono del carillon, la delicatezza dello scorrere analogico della carta e l’intimità dello spazio evocano un’altra scena: quella di un’infanzia ricordata con nostalgia, di una buonanotte dopo l’ultima fiaba. L’utilizzo di un vero carillon e la sua continua ricarica è un gesto semplice, goffo ma che – rispetto a un automatismo digitale impostato per coprire l’intera durata della performance – si adatta meglio alla situazione e all’idea del progetto in sé, poiché contribuisce a rompere la finzione scenica e a mantenere viva questa oscillazione tra il pubblico e il privato, tra la memoria personale e la rappresentazione.

Room 3: sulla scena del crimine di GMRGP
Nella terza stanza avviene un ulteriore cambio di registro. Il collettivo GMRGP crea un’atmosfera più leggera, quasi buffa, caricata dai pochi elementi scenografici che sembrano voler raccontare una scena del crimine in cui il delitto è in realtà il fortuito intreccio, avvenuto tra i percorsi delle due artiste. Nonostante in questa stanza, contrariamente alle precedenti, non avvenga una vera azione scenica, la funzione spettacolare esiste ed è costituita dalla sola presenza del duo.
Loro sono lì: parlano, ridono, rispondono alle domande dei visitatori con tono autoironico e spesso disarmante, ma pensare che il loro esserci sia secondario o addirittura superfluo vuol dire essersi lasciati trarre in inganno.
Se l’evento evocato sulla scena del crimine è avvenuto prima del nostro arrivo, ciò che invece possiamo vivere, ora, è la sua conseguenza: ovvero proprio la relazione tra le due artiste, che si manifesta come prova vivente di quel passato. Sono lì per esserci come si sta in due in una foto riuscita per sbaglio, a dimostrazione che ciò che sono oggi è dovuto, almeno in parte, a ciò che è accaduto quel fatidico giorno.
Il collettivo non costruisce un’opera visiva o performativa nel senso classico, ma costituisce una situazione, una scena già svolta di cui noi possiamo apprezzare solo il suo residuo affettivo, il suo effetto collaterale.

Un legame autentico e accidentale
Nonostante gli interventi artistici siano dichiaratamente autonomi, separati fisicamente e concettualmente dalle mura che delimitano ogni stanza, attraversandoli emerge qualcosa che li accomuna. È proprio quest’assenza di un progetto collettivo, l’intenzione curatoriale di non forzare legami, avesse finito per produrre un legame più autentico: qualcosa che nasce non dalla programmazione, ma dalla coabitazione accidentale di gesti, presenze e atmosfere. Un insieme che prende forma non per intenzione, ma per risonanza.
In tutte e tre le stanze, infatti, la figura dell’artista è presente. Ma non nella forma consueta del performer, né in quella più tradizionale dell’autore invisibile. Si tratta piuttosto di presenze silenziose, abitanti temporanei di uno spazio, che lo rendono vivo senza occupare la scena. Non agiscono per esibirsi, ma per stare. Una presenza non assertiva, che apre al contatto, alla possibilità di un incontro.
Questo equilibrio sottile tra esposizione e intimità è forse la cifra più affascinante dell’intero percorso. Ogni stanza sembra giocare su questa soglia.
Gli spazi in cui performano gli artisti sono investiti di due aure differenti, un’oscillazione tra il privato e il pubblico, tra la camera da letto ed il piccolo palcoscenico.
Se nella prima stanza i tre banchi di Spina sono sia podio che letto e la lettura è un gesto sia intimo che condiviso, nella seconda, il teatrino di Maciocci richiama sia un intrattenimento da piazza, che un tentativo di ricollegarsi a vecchi ricordi, ad un sé del passato. Infine, nel terzo spazio, la buffa scenografia del collettivo GMRGP racconta un fatto, facendosi aneddoto di pubblico dominio, ma l’elemento centrale resta la presenza viva delle due artiste, il loro modo di stare lì, di interagire e di giocare, che non racconta esplicitamente ma lascia solo intuire il senso dell’accaduto e la densità emotiva e affettiva del loro trascorso insieme.
In ciascuno di questi interventi c’è dunque un movimento pendolare, un continuo andare e venire tra interno ed esterno, tra intimo e condiviso. Gesti nati in uno spazio privato che si aprono agli altri, ma senza mai davvero superare la soglia, senza mai trasformarsi in performance nel senso tradizionale. Questo restare un passo indietro, è ciò che conferisce umanità, delicatezza e autenticità ai tre lavori.
Insieme, peraltro, a un altro tratto comune. A contribuire a questa atmosfera così insolita è anche l’assenza di climax. Nessuna delle opere impone un centro, un momento clou, un apice da aspettare. Tutto si svolge in una sorta di sospensione narrativa, in uno stato di latenza. Non accade nulla di eclatante, ma tutto resta lì, in potenza. Il senso si costruisce nel tempo lento dell’ascolto, dell’osservazione, dell’apertura. Non c’è un messaggio da decifrare, c’è un contesto da abitare. È un invito a restare, piuttosto che a capire.
È proprio in questi tratti comuni che si manifesta il legame più profondo tra le tre stanze: tutte, a loro modo, mettono in scena una relazione fragile ma reale tra artista, opera e spettatore. Una relazione non codificata, ma possibile.
La mostra rimarrà aperta fino all’8 di luglio, suggerisco di approfittare di questa ospitalità incerta, accidentale e, proprio per questo, sincera.