18 maggio 2025

L’atto del camminare come presa di coscienza dei luoghi: il nuovo libro di Francesco Careri

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Camminare e fermarsi: la trasformazione dello spazio pubblico tra mobilità, riflessione e responsabilità urbana, nel nuovo libro di Francesco Careri

Francesco Careri, Camminare e fermarsi

Nel percorso di Francesco Careri, l’arte del camminare si trasforma da pratica errante a riflessione che postula l’atto del fermarsi, come responsabilità e cura degli spazi attraversati. Camminare e fermarsi (Mimesis, 2025), la nuova pubblicazione dell’architetto, artista e membro del gruppo Stalker, segna un ritorno importante. Il testo si pone in continuità con il percorso tracciato dalla sua prima pubblicazione, Walkscapes, camminare come pratica estetica — che vide la stampa prima in Spagna e dopo in Italia per Einaudi, nel 2022 — divenuto ormai pietra miliare delle pratiche contemporanee, in relazione all’attraversamento degli spazi antropizzati.

Raccogliendo trent’anni di esperienze «vissute come artista, architetto e attivista», Careri estende il cammino intrapreso: al nomadismo erratico applica la “pausa” non come rinuncia, ma come un’evoluzione del movimento stesso. Per questa capacità di unire la mobilità al pensiero critico, proponendo un modo diverso di interagire con la città e con il territorio, la pratica del camminare, dopo essere stata metodo cognitivo e di esperienza estetica, si appresta a divenire strumento di trasformazione e responsabilità.

Proprio come questo agire suggerisce, la pubblicazione attraversa diversi ambiti disciplinari, con un approccio nomade e rizomatico e costituendo la versione italiana e focalizzata sulla città di Roma, di un libro pubblicato nel 2016 da Gustavo Gili, Barcellona. Qual è il ruolo che esercita il concetto di “pausa” nella mobilità, determinando la scelta del luogo in cui fermarsi? Quello di «esploratore desiderante di processi in atto» nello spazio pubblico, in grado di sovvertire i tradizionali paradigmi della progettazione architettonica e urbanistica.

Seguendo le tracce delle avanguardie artistiche e filosofiche del Novecento, Careri si rifà alla psicogeografia situazionista e alla teoria della dérive di Guy Debord, rintracciando un’origine nautica della parola, «capace di esprimere l’ambiguità del perdersi coscientemente cercando di dosare il desiderio e il caso, il razionale e l’irrazionale, il progetto e l’anti-progetto.» L’autore insiste sulla capacità del movimento di produrre narrazioni inedite della città, rivelando i suoi margini, le sue contraddizioni e le sue possibilità di risignificazione.

«Ma il camminare non era sempre fluido, era pieno di ostacoli e di impedimenti, ci trovavamo spesso a scavalcare confini, margini, recinzioni. Abbiamo compreso quanto l’atto di scavalcare sia l’azione arcaica del rifiuto della proprietà privata: Abele, il pastore nomade, che scavalca la recinzione del campo agricolo del sedentario Caino». Si legge in riferimento ad alcune delle pratiche di attraversamento dei “territori attuali” – le zone abbandonate di Roma- condotte dall”osservatorio nomade” Stalker, ovvero un collettivo di artisti e architetti, nato all’interno del movimento studentesco “Pantera” del 1990. L’architettura oltrepassa la sua funzione edificatoria, scavalcando, diremmo, il concetto stesso ed estendendo la sua efficienza alla costruzione di relazioni e significati. Un atto performativo, un gesto artistico: camminare mette in discussione le gerarchie spaziali e sociali della città contemporanea.

Non trascurando di partire dal “walkabout” di pasoliniana memoria, le esperienze del gruppo Stalker negli spazi indecisi tra natura e artificio, si ricongiungono ad alcuni marker importanti del territorio capitolino. Le esperienze collettive analizzate che si collocano tra arte e urbanistica, dal Porto fluviale al, cosiddetto, modello Corviale, propongono un approccio all’architettura che supera la rigidità del progetto tradizionale, per aprirsi alla dimensione del processo. Alla luce di questi “modelli”, appare chiaro che se la mobilità è una pratica esplorativa, fermarsi assume il valore di un atto di presa di coscienza e di responsabilità. La scelta di prendersi cura di un luogo, di interagire con la sua comunità, implica trasformarlo attraverso pratiche partecipative.

Ciò si traduce nella proposta di un’architettura “in divenire”, che si costruisce nel tempo e attraverso il coinvolgimento degli abitanti e un efficientamento comunitario delle risorse: «oltre alla mixité sociale è necessaria, infatti, una complessa mixité economico-funzionale, ossia una compresenza di funzioni e spazi a regime economico differenziato.»

La riflessione viene ulteriormente attualizzata con l’esperienza praticata come metodo didattico nello spazio urbano. L’esperienza di Careri con gli studenti delle accademie d’arte e delle facoltà di architettura, evidenzia come questa pratica costituisca un metodo di apprendimento che supera la trasmissione verticale del sapere, diventando esperienza condivisa.

Un agire che si costituisce nel corso dei trent’anni, espresso da termini che ricorrono nelle storie riportate e nelle pagine, finendo per comporre un prontuario, sotto forma di breve glossario in appendice al testo.

Non manca una riflessione rivolta al sistema dell’arte e dell’architettura, spesso intenti a produrre oggetti autoreferenziali, disconnessi dal contesto sociale e territoriale. In alternativa, Careri propone un’arte pubblica che sia processo, relazione, azione diretta nello spazio della città. Una visione che si riflette nel progetto CIRCO, in cui l’obiettivo è quello della circolarità economica nell’ottica di consentire al progetto, una volta a regime, di autosostenersi nel tempo, facendo in modo che le diverse funzioni agiscano economicamente all’interno di un unico sistema.

L’opera di Careri, nel suo generoso e accurato impianto, diventa presto una fondamentale lente che legge il presente, con lungimiranza e concretezza, indicando l’urgenza di ripensare il rapporto con la città e con il territorio in un’epoca di crescente frammentazione e accelerazione. L’arte, l’architettura e l’urbanistica possono essere pratiche fluide, capaci di adattarsi alle complessità del reale e di rispondere con creatività alle sue contraddizioni. In un momento storico in cui la città tende a diventare sempre più spazio di consumo e sorveglianza, il camminare e il fermarsi si rivelano atti di resistenza e di riscoperta, strumenti per riappropriarsi del diritto alla città e alla sua trasformazione collettiva.

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