Categorie: Arti performative

Intervista a Luca Pagan, l’artista che suona il proprio corpo attraverso la tecnologia

di - 22 Giugno 2025

Là dove la tecnica incontra il corpo, nasce un nuovo senso. Non un organo, ma un’intuizione: una risonanza. L’indagine artistica di Luca Pagan si muove in questo spazio sospeso, in bilico tra organicità e tecnologia, tra gestualità e algoritmi, tra identità e suono. La sua performance non è solo azione, ma metamorfosi. La sua ricerca non si inscrive in una poetica della tecnologia, ma in una fenomenologia dell’esperienza, dove il corpo non è semplice contenitore, bensì sorgente di senso, processore affettivo, spazio vivo di risonanza.

È in questa interzona fluida che si inscrivono le riflessioni di Roberto Marchesini e Donna Haraway, presenze concettuali che attraversano sotterraneamente la pratica di Pagan. Se Marchesini individua nell’ibridazione una condizione ontologica, un processo di continuo sconfinamento tra umano, animale e tecnologia, Haraway smantella l’illusione di un’identità pura, proponendo un soggetto ibrido, contaminato, capace di vivere nella contraddizione e nella mescolanza. Pagan non è solo interprete di queste visioni: ne è corpo vivente, carne tecno-poetica che danza la frattura e ne fa linguaggio.

Luca Pagan

La performance, allora, non è spettacolo, ma esperienza. Un varco percettivo in cui l’umano si riconfigura, riformulando la propria presenza nel mondo. Pagan non suona la macchina, la ascolta. La osserva. Ne riceve le onde, ne interpreta il feedback. È un corpo che si fa antenna, che intercetta e rilancia, che plasma nuovi codici di espressione dove il gesto, prima ancora di essere movimento, è pensiero incarnato. Ed è in questa vibrazione – fisica, sonora, concettuale – che prende forma una soggettività radicalmente post-umana, mobile, mai definitiva e sempre in divenire.

In questo orizzonte di continui attraversamenti, il dispositivo Multi-Node Shell — esotuta sensorizzata modulare, interamente sviluppata e performata dall’artista stesso — rappresenta la cristallizzazione di tale visione: una seconda pelle intelligente, un’estensione epidermica capace di tradurre i moti invisibili del corpo in frequenze udibili, evocando così un linguaggio altro, originario, quasi primordiale. Non un semplice esoscheletro tecnologico, ma un ecosistema reattivo che raccoglie, interpreta e restituisce. Non si tratta dunque di estendere il corpo, ma di ripensarlo, decostruirlo, attraversarlo con altri paradigmi di percezione e narrazione. Pagan riporta al centro una pratica radicalmente incarnata, una danza ibrida che interroga – e destabilizza – l’ontologia dell’essere umano.

Luca Pagan

Il tuo percorso sembra nascere da un’esigenza conoscitiva che vede come protagonisti il corpo, il suono e la percezione. Se dovessimo cercare un’origine, un primo movimento di senso, dove collocheresti l’inizio di questa esplorazione?

«Tutto è nato dal desiderio di comprendere il carattere espressivo e il valore comunicativo del suono, esplorando il confine tra scienze cognitive ed esperienza personale. Il cervello elabora le informazioni, ma è il corpo a percepirle: ogni nostra azione, anche percettiva, è radicata nel corpo. Per questo ho scelto di partire dallo studio dell’embodied music cognition, perché anche l’ascolto musicale nasce da una dinamica corporea. La forma dell’orecchio ne determina la ricezione, ma è l’interazione tra corpo e mente a renderlo un processo comunicativo».

Hai parlato della musica come esperienza corporea, che cosa intendi esattamente e in che modo il corpo diventa per te il vero medium all’interno della comprensione e della composizione sonora?

«Ogni descrizione è inevitabilmente mediata dal linguaggio, influenzato da dinamiche socio- culturali che ne definiscono i limiti interpretativi. In ambito musicale, le descrizioni verbali sono le più diffuse perché condivisibili, ma portano con sé una forte soggettività, legata al contesto culturale di chi parla e ascolta. Al contrario, le descrizioni corporali risultano sul piano sociale più dirette e meno filtrate: sebbene muovere il corpo in relazione alla musica sia una pratica personale, quindi soggettiva, talvolta emergono delle osservazioni oggettive nelle relazioni tra il movimento e il cambiamento di parametri fisici del suono. Il corpo diventa così veicolo di un linguaggio intersoggettivo, personale ma anche intuitivamente comprensibile. Lo stesso accade nell’ascolto: molteplici approcci percettivi si riconducono a un’unica matrice applicata in modo diverso. La mia sfida è proprio questa: esplorare come l’esperienza musicale prende forma attraverso macchine e hardware, per evidenziare la ricchezza e la molteplicità dell’individualità umana».

Muovendo da un’impostazione profondamente radicata nell’esperienza musicale e percettiva, quale traiettoria ti ha condotto verso l’universo tecnologico? In che modo il tuo dialogo con la macchina si è direzionato verso questa forma?

«Il mio approccio musicale era già orientato al gesto, ma mediato da strumenti disincarnati: ero io a dovermi adattare a loro. Da questa tensione nasce la mia svolta: ribaltare il paradigma, permettere alla tecnologia di adattarsi al corpo, non il contrario. Ho sviluppato un design modulare basato su nodi, capace di aderire alle superfici corporee. Qui è emersa l’implementazione dell’intelligenza artificiale, non come strumento vincolato alla mia soggettività, ma come entità capace di accoglierne altre. Il sistema, addestrato su due reti neurali, opera su due piani: da un lato viene insegnato alla macchina l’espressività corporale associata alla produzione di strutture soniche, dall’altro il riconoscimento di stati comportamentali che influenzano l’atteggiamento del software e del suono. Il software riceve in tempo reale una mappa sensibile, rielaborando l’informazione in suono e restituendola al mio gesto, generando un contro-feedback continuo. Il vero nodo concettuale si sposta così: non solo cosa possiamo insegnare alla macchina, ma cosa la macchina può restituire a noi — un rispecchiamento attivo della soggettività incarnata».

È evidente che il dialogo instaurato con la macchina risulta essere molto profondo, biunivoco, di affermazione e identificazione reciproca, un flusso continuo dove la componente artificiale è vera e propria partner all’interno dell’atto performativo. A questo punto immagino che tale armonia discorsiva non sia stata immediata, quali dissonanze, ostacoli e sorprese ti hanno condotto in questo processo di accordatura reciproca?

«Dopo circa una decina di performance, mi sono reso conto che stavo modificando i gesti e le pose rispetto alle esecuzioni iniziali. Questo perché l’algoritmo, durante le fasi di transizione tra il riconoscimento dei gesti, continua ad interpolare i dati restituendomi risultati sonori inaspettati. Ho subito capito che proprio quelle transizioni e i loro risultati sonori erano il vero nucleo creativo della performance. Non era più ciò che avevo insegnato alla macchina a guidare il processo, ma quello che la macchina stessa riusciva a restituirmi. Questo comportamento inatteso e creativo ha aperto nuove possibilità espressive, specialmente nell’ambito del feedback musicale. Diversamente dagli strumenti tradizionali, che rispondono in modo prevedibile ai comandi gestuali del musicista, il mio sistema – Multi-Node Shell – costruisce dei risultati sonici che sono il frutto di una costante interazione tra il linguaggio motorio del performer e l’interpretazione real-time della macchina. L’A.I. arricchisce il dialogo creativo, rendendolo bidirezionale. Così, l’interazione tra artista e macchina diventa più solida, quasi paritaria: non si tratta più solo di suonare uno strumento, ma di dialogare con esso, lasciando spazio all’improvvisazione condivisa».

Ogni profonda interazione lascia delle conseguenze, delle tracce, genera trasformazioni. Tornando alla tua esperienza diretta, cosa accade quando ti spogli del dispositivo dopo averlo indossato a lungo? Il corpo, ormai abituato a una nuova architettura sensoriale, percepisce un’assenza? È possibile che si attivino forme di alterazione percettiva, come se il gesto continuasse a evocare suono, o il suono a suggerire movimento, anche in assenza dello strumento?

«Penso che uno degli aspetti piu importanti sia legato alle forme di comunicazione. Mi è capitato spesso di voler esprimere emozioni o stati d’animo attraverso espressioni musicali, piuttosto di forme linguistiche. Con la pratica ho capito che certe intenzioni – soprattutto quelle emotive e immediate – possono essere comunicate in modo efficace anche attraverso un suono, soprattutto se accompagnato da gesti. Il movimento fisico introduce una dimensione gestuale che potenzia la comunicazione, rendendola più chiara e diretta. In questo modo, anche senza parole, posso trasmettere stati d’animo complessi. Durante le performance, ad esempio, uso movimenti molto energici e intensi per comunicare aggressività, come quando assumo delle pose con braccia aperte: in questi casi associo un suono simile a un terremoto, e il messaggio arriva forte e chiaro. Al contrario, quando mi rannicchio al suolo, uso suoni acquatici e ovattati, come a indicare una chiusura emotiva. Questi esempi mostrano come certi significati emotivi, spesso legati a codici linguistici, possano essere espressi in modo più immediato e potente tramite gesti e suoni».

Luca Pagan

Trovo interessante l’utilizzo di sonorità che legate a contesti naturali, sembrano suggerire un desiderio di ritorno a un ecosistema quasi primordiale, non ancora stratificato dalla cultura. Ti sei mai interrogato sulla possibilità che la comunicazione corporea e gestuale che esplori possa evocare, in qualche modo, un’estetica arcaica? Una sorta di linguaggio pre-culturale, inscritto nella memoria profonda del corpo?

«Non avevo mai considerato il mio lavoro come una sorta di ritorno alla natura primordiale. L’elevata presenza di tecnologia e complessità mi hanno sempre fatto pensare il contrario. Le mie sonorità non sono viscerali o ancestrali come quelle che potremmo associare ai suoni primitivi, ma sono legate alle mie esperienze personali e al mio vissuto: scelgo i suoni da associare ai gesti in base alle sensazioni che quel suono mi restituisce, molte volte sono frutto di cosa quel suono produce nella mia memoria. Tuttavia, ripensandoci, il legame con un ecosistema più “naturale” può emergere nella dimensione comportamentale che la mia pratica prevede: attraverso la gestualità, mi libero dai codici sociali e linguistici, entrando in una dimensione più istintiva, quasi animale. Secondo l’embodied music cognition: il suono, espresso con il corpo, attiva una risonanza comportamentale, una modalità di interazione che ha origine nella nostra biologia. Per comprenderlo appieno, bisogna tornare all’origine dell’ascolto, alle cosiddette “esperienze di distinzione” – quei momenti in cui avvertiamo un cambiamento nel flusso sonoro, percepibili da qualunque essere vivente umano o animale. Come un rumore improvviso che fa sobbalzare un animale, o un bambino: il corpo reagisce prima della mente».

È possibile, allora, che in questo ritorno all’ascolto corporeo si nasconda una forma di memoria arcaica, pre-linguistica, che ci lega agli altri esseri viventi oltre le barriere della cultura e della tecnologia?

«Descrivere un suono attraverso un’azione corporea significa attivare questa risonanza comportamentale. Non è una forma di comunicazione nel senso stretto, ma un principio che accomuna tutti gli esseri viventi. Il mio linguaggio non mira a un ritorno alla natura, ma a far riemergere la brutalità comportamentale insita nell’essere umano, qualcosa di più diretto, crudo, istintivo. È una forma di espressione emotiva non mediata dal pensiero, e per questo estremamente potente. Per questo, a volte, mi piacerebbe l’idea di tenere il dispositivo addosso anche dopo la performance: è come se, senza, perdessi la capacità di esprimere certe emozioni complesse attraverso il suono. Con essa, posso comunicare in modo più puro, immediato e profondo».

Luca Pagan, Multi-Node Shell

Possiamo dire, dunque, che l’uso di Multi-Node Shell– in quanto dispositivo tecnico intimamente intrecciato al tuo corpo – abbia modificato e ampliato il tuo orizzonte percettivo? È forse lecito parlare dell’emergere di un nuovo senso, ancora in fase embrionale, che pur restando per ora confinato all’ambito performativo, sembra prefigurare un’estensione sensoriale in lenta ma inesorabile evoluzione?

«Sì, parlerei di un nuovo senso, per ora ancora in una forma creativa e sperimentale. La mia ricerca non mira a introdurre un cambiamento tecnologico finalizzato all’adattamento funzionale del corpo, né a migliorare direttamente la qualità della vita. È piuttosto un percorso speculativo, un’indagine espressiva che interroga il rapporto tra corpo e tecnologia. L’obiettivo non è rendere il fisico più performante rispetto al contesto, ma aprire spazi di riflessione su come questi strumenti influenzano il nostro modo di percepire, agire e, in definitiva, esistere».

Se ci allontaniamo dall’immaginario fantascientifico che la parola cyborg inevitabilmente evoca, possiamo forse riconfigurarla in una chiave più fertile: quella dell’identità ibrida. Alla luce del pensiero postumano, l’ibridazione non è solo commistione, ma una vera e propria disposizione alla contaminazione, all’apertura. La tua ricerca artistica sembra incarnare pienamente tale tensione. In che modo la tua soggettività si lascia attraversare da questa logica trasformativa?

«Il termine che reputo necessario mettere al centro della mia ricerca è l’esperienza, intesa come origine percettiva di ogni identità, sia personale che collettiva. È attraverso le esperienze che costruiamo chi siamo, e quando queste vengono espanse grazie alla tecnologia — come nel caso della Shell — l’identità stessa si trasforma, perdendo la sua forma originaria per diventare ibrida. Parliamo di una soggettività contaminata da possibilità non più soltanto umane, ma ampliate oltre i limiti corporei. Come afferma Galimberti, viviamo nell’epoca della tecnica: le nostre esperienze sono sempre più intrecciate con il mondo tecnologico, e da questo intreccio nasce un’identità che non può più essere pensata come separata da esso. Una soggettività ibrida è, per sua natura, aperta alla trasformazione. La vera forza sta proprio in questa disponibilità al cambiamento. Finora ho agito da solo nelle mie performance, ma ora mi interessa esplorare cosa accadrebbe se più corpi, più soggettività ibride, si incontrassero in scena. Quale nuovo linguaggio potrebbe emergere?»

Ciò che colpisce nelle tue performance è la loro radicale essenzialità: sei tu, la Shell e il suono. Nulla di più. Eppure, in questa apparente nudità scenica, ogni gesto si amplifica, si carica di una densità espressiva e profonda. Paradossalmente, l’armatura che avvolge il tuo corpo sembra denudarti ancora di più, renderti più vulnerabile, più esposto. Ogni movimento, nella sua semplicità, diventa monumentale. La tuta aderisce alla pelle come se fosse un’estensione organica, un corpo nato dal corpo, evidenziando un forte senso di appartenenza. È un’impressione che si avverte già prima che il gesto cominci.

«Non ho mai sentito il bisogno di portare troppi elementi in scena, nemmeno integrando altri linguaggi come quello visivo. Non perché non li ritenga validi, ma perché credo che aggiungere qualcosa rischierebbe di indebolire la chiarezza e l’integrità della mia ricerca. Nelle mie performance ci sono solo io e il pubblico, nient’altro. Il messaggio è l’esperienza stessa, nella sua nudità. Non serve interpretare o cercare significati nascosti: ciò che porto in scena ha bisogno di essere vissuto. Lo spettatore deve essere lì con me per comprendere davvero il senso del mio lavoro».

Guardando a un futuro prossimo, quale direzione immagini per l’evoluzione di queste architetture corporee? In che modo pensi che si trasformeranno, espandendo ancora il dialogo tra corpo, tecnologia e percezione?

«Il prossimo passo, già in corso d’opera, è evolvere il dispositivo hardware da uno strumento di rilevamento in una protesi sonica interattiva che includa tutte le sue componenti tecniche. La nuova protesi avrà il computer e l’impianto audio già nella struttura indossabile. É il desiderio che avevo da quando ho cominciato, solo adesso mi rendo conto che è fattibile. Sto progettando questo upgrade anche perchè trovo limitato il suo utilizzo solo in ambiente performativo, vorrei vivere con la Shell nella mia quotidianità, compresa le uscite all’aperto. Sono certo che si aprirebbe un nuovo mondo da esplorare nella relazione tra soggetto-dispositivo-ambiente».

Il rapporto che instauri con la macchina si configura come una coesistenza creativa, alimentata da una curiosità che è prima di tutto filosofica, espressiva, profondamente speculativa – come tu stesso hai sottolineato. Se provassimo a circoscrivere l’ambizione che anima la tua ricerca, potremmo forse identificarla nel desiderio di rendere sempre più intima, integrata e simbiotica la relazione tra essere umano e macchina?

«Riflettendo sul mio percorso, credo che il cuore della mia ricerca sia il tentativo di instaurare una simbiosi sempre più profonda tra l’essere umano e la macchina. Se la tecnologia continuerà a evolversi fino a sviluppare processi cognitivi sempre più raffinati, potrà entrare in una relazione più intima con noi. Ma non si tratta di replicare la logica umana nei sistemi artificiali: l’obiettivo non è traslare la nostra intelligenza nella macchina, bensì immaginare una complementarità tra due forme diverse di intelligenza — quella algoritmica e quella umana. L’A.I. non dovrebbe essere addestrata solo a rispondere o imitare il pensiero logico, ma a sviluppare una propria forma di creatività, “altra”, capace di generare nuove prospettive sull’identità e sul nostro modo di abitare il mondo. Anche se un giorno i nostri apparati sensoriali venissero imitati con grande precisione, il valore dell’esperienza personale resterà irripetibile. Tuttavia, la macchina può accedere a frequenze e dati che sfuggono alla percezione umana, come nel caso delle onde radio. È in questo scarto che risiede la potenzialità: non nell’imitazione, ma nell’espansione».

Luca Pagan, Multi-Node shell

In che misura tale “alterità creativa” potrebbe diventare un’occasione per ripensare anche i confini della nostra umanità, e forse, la stessa nozione di coscienza?

«Il movimento cyborg contemporaneo ne è un esempio: partire da percezioni diverse per aprire nuovi varchi di comprensione, offrendo strumenti critici per leggere la realtà. Sebbene la macchina è avvantaggiata nel processare grande quantità di dati a differenza della memoria umana, le scelte che essa compie hanno origine in sofisticatissime operazioni statistiche piuttosto in qualcosa che assomiglia alla coscienza umana. Questo perchè la macchina non ha la percezione del sè. Credo sia infattibile pensare che le macchine acquisiranno a breve una sorta di coscienza poiché noi in primis non conosciamo a pieno il suo funzionamento. Per questo preferisco attribuire alla macchina una forma di creatività complementare alla mia, capace di entrare in risonanza con la mia soggettività corporea e il mio immaginario espressivo. Una simbiosi non imitativa, ma profondamente trasformativa».

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